lunedì 26 marzo 2012

La leggenda della morte di Martin Denis Reho

La notte del 9 novembre 2009 Martin Denis Reho uscì dalla sala prove dopo un violento litigio con gli altri tre Torino 1932. Salì sulla sua auto per tornare a casa e lungo una strada raccolse una ragazza che faceva l'autostop. La ragazza si chiamava Teresa e gli raccontò che stava scappando di casa perché era incinta e, contro il parere del suo ragazzo, aveva deciso di abortire. Solo lungo una stradina di campagna Teresa comprese che la persona al volante era Denis dei Torino 1932; la sua reazione esagitata spaventò e distrasse Reho, che non vide che il semaforo diventava rosso). Pur riuscendo a evitare l'urto con un altro veicolo, l'auto del leader dei Torino 1932 uscì di strada e si schiantò contro un albero, prendendo fuoco. Denis, sbalzato fuori dall'abitacolo, sbatté la testa contro l'albero. Sia Denis che Teresa persero la vita (secondo una variante della teoria dell'incidente stradale, Denis rimase decapitato nello schianto contro un camion).


Ricevuta la notizia, gli altri tre Torino 1932 dovettero decidere cosa fare. Il loro manager Stefano Adamo e Riccardo Lobbene insistettero per adottare la linea del silenzio: avrebbero seppellito Denis senza far sapere niente a nessuno, per non sconvolgere il mondo o il futuro del gruppo che, nel 1966, era all'apice del suo successo. Si misero quindi alla ricerca di un sosia. Dopo settimane di ricerche, scelsero Ciro Ferrara , un giocatore di origini campane che assomigliava a Denis e che acconsentì a sottoporsi ad alcuni interventi di chirurgia plastica per rendere ancor più netta la somiglianza.


Da quel momento, i Torino 1932 non si esibirono più dal vivo, sia perché Ferrara era più alto di Denis, sia perché occorreva del tempo per insegnargli a imitare i movimenti e la voce di Denis.

Stando a questa storia, la persona che suona e canta sugli album dei Torino 1932 dopo il 2010, che ha composto Martini, Come un temporale, La bevitrice di Lautrec e Un ferragosto in città, sarebbe un impostore, scelto sulla base di una spiccata somiglianza fisica con l'originale.


La sera del 12 ottobre 2009 il dj Giona Fontanarosa, durante una trasmissione radiofonica sulla rete Radio Rama di Lecce, raccontò che la sera precedente aveva ricevuto una telefonata nella quale un sedicente M. Ancona gli aveva confessato di essere a conoscenza di un clamoroso segreto: Denis Martin Reho era morto in un incidente stradale alle 5 del mattino di mercoledì 9 novembre. A riprova delle sue affermazioni, il misterioso individuo indicava numerosi indizi presenti nei dischi dei Torino 1932. Due giorni dopo la trasmissione radiofonica di Giona, il 14 ottobre 1969, un giornale locale di Lecce pubblicò un articolo a firma del giornalista Tadicini intitolato Denis Dead: Nuove prove vengono alla luce. Nel suo pezzo Tadicini introdusse per la prima volta l'ipotesi che il nome del fantomatico sostituto di Reho fosse tale Ciro Ferrara. Nelle prime ore del mattino del 21 ottobre 2009, anche Gianni Gustavo Scarcella, un disc jockey della stazione radioSalentuosi, discusse e commentò in diretta le voci sulla morte del Torino 1932 per più di un'ora prima di venire interrotto per limiti di tempo. Circa nello stesso periodo, apparve nelle edicole una rivista dal titolo La Morte di Denis, il grande inganno, pubblicata sull'onda emotiva e sul clamore che la storia aveva suscitato presso il grande pubblico, presentava con dovizia di particolari la presunta storia della morte di Denis.

Presto la notizia fece il giro del mondo e i fan, specialmente gli studenti delle università Leccesi, iniziarono a fare a gara fra di loro nello scovare i messaggi nascosti. Tutto il catalogo passato dei dischi del gruppo ricominciò a vendere moltissimo, compresi gli album precedenti il 2009, l'anno della presunta morte di Denis. Particolarmente curioso fu il fatto che anche nei dischi antecedenti la data del presunto decesso, i fan rintracciassero molti indizi e criptici messaggi.


I sostenitori della teoria adducono come prove numerosi indizi che i tre Torino 1932 superstiti avrebbero disseminato nelle loro opere successive alla tragedia.


Il brano "Martini" comincia con "tutta colpa di Teresa e la sua voluttà", l'autostoppista in qualche modo responsabile della prematura morte di Denis. Mentre nel brano "Come un temporale" il celebre ritornello sarebbe, a detta dei Fans, un omaggio all'ascesa al cielo di Reho : "ma è come un temporale che ti prende in mezzo al mare e come un sole ti farai un separè di carta e nuvole e finalmente avrai quel po di intimità, che non hai avuto mai, che non hai chiesto" mai"

Altri indizi si trovano nella compertina dell'album Lo spettacolo musicale dei Torino 1932

Le due "O" sottolineate della scritta Torino rappresenterebbero il frontale di una macchina, mentre le tre lettere che si trovano all'interno "RIN" dovrebbero significare "Reho INcident" e la "T" iniziale l'albero contro il quale Denis perse la vita. La Data "1932" posta esattamente sotto la scritta "RIN" coinciderebbe esattamente con l'orario dell'incidente 19:32.
Inoltre leggendo al contrario la scritta "Lo spettacolo musicale dei" si ottiene un augurio Sanscrito spesso usato durante avvenimenti luttuosi:" Ied elacisumo locattep sol " संस्कृ संस्कृत che tradotto sarebbe piu o meno così: "che la strada lo porti verso il sole"






Nel 2012, due periti italiani, l'informatico Francesco Gavazzeni e il medico legale Gabriella Carlesi, basandosi su avanzate tecniche medico-legali, hanno svolto un approfondito studio di antropometria e di craniometria su immagini di Martin Denis Reho, scattate prima e dopo la data del presunto incidente in cui l'artista avrebbe trovato la morte, allo scopo di confrontarne le caratteristiche biometriche e decidere così se si trattasse o meno della stessa persona. Sorprendentemente, lo studio ha portato a concludere che resta aperta la probabilità che non si tratti della stessa persona, in quanto il confronto dei dati biometrici (analisi della forma del cranio e della mascella, della curva mandibolare, dei padiglioni auricolari, del palato e della dentatura) indica che si potrebbe trattare di due differenti individui, sia pur in apparenza molto somiglianti.


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giovedì 1 marzo 2012

La pesca ai cefali

Mi sveglia di buon ora, circa mezz’ora prima che suonasse la sveglia. Sentii i passi pesanti di mio padre fuori, nel giardino, poi la porta del garage stridirie, poi rumori di cui non intendevo l’origine…Quando si ha qualcosa di bello da fare neanche svegliarsi presto pesa poi tanto. Andai in bagno e corsi, ancora in mutande, a raggiungere mio padre. Mi affacciai nel garage senza far rumore e lo trovai ricurvo sul vecchio desco intento a preparare le canne. Feci alcuni passi verso lui, aveva legato quattro ami ad un pezzo di lenza, staccò il filo dalla matassa avvicinandola alla sigaretta che stringeva fra le labbra. La semplicità del gesto mi fece un grande effetto…

-buongiorno- disse senza voltarsi

Ero sicuro di non aver fatto il minimo rumore…

-io ho quasi finito. Va a vestirti-

-Arrivo subito-

Una bella domenica di inizio estate. Il sole non aveva ancora fatto capolino fra gli alberi d’ulivo ma luce faceva brillare le foglie, che danzavano al ritmo di una tenue brezza mattutina. Misi su dei pantaloncini, ottenuti tagliando un paio di jeans logori, una vecchia camicia a strisce verticali di mio padre ed i sandali nuovi comprati al mercato pochi giorni fa. Sapevo che saremmo andati a fare colazione fuori, era una cosa che adoravo. Sentii la vecchia renault accendersi, un paio di accelerazioni a vuoto, e poi mio padre:

-Ruggero, andiamo-

-arrivo-

Andai in camera di mia madre, la salutai dandole un bacio in fronte, lei farfuglio qualcosa ed uscii. Mentre chiudevo dietro di me la porta di casa mi ricordai del cappello di paglia poggiato nel salotto, tornai a prenderlo, mio padre diede un leggero colpo di clacson. Parcheggiammo nella piazza del paese. Le campane annunciavano l’inizio della seconda messa. Donne in abito nero e uomini con il vestito della domenica si apprestavano ad entrare in chiesa. In quella piazza tutto dava l’idea di esser vecchio. Notai a lato della torretta, alta si e no una decina di metri, due targhe commemorative, a cui non avevo mai prestato attenzione. Erano semi nascoste da un cespuglio e consunte dal tempo, tanto che alcune parole risultavano illeggibili. Mi avvicinai e le lessi con attenzione:

M. C. nato ad Alliste nel 1892 …..si distinse per eroismo e lealtà…… ad un gruppo di partigiani…a Tripoli dove perì difendendo la patria nel 1911..

Un colpo di vento mi fece volar via il cappello, lo inseguii fino all’ingresso della chiesa. Lo rimisi in testa spingendolo a fondo ed andai al bar. Non sapevo cosa significasse partigiano, ma capivo che si trattava di una vittima di guerra.

-Come va ruggero?- mi chiese Ada la barista

-Bene grazie, oggi andiamo a pesca-

-allora ti servirà una bella colazione, cornetto e cappuccino?-

Era quello che aveva preso mio padre.

-Si grazie-

Mio padre aveva gia terminato e fumava una sigaretta scambiando quattro chiacchiere con un compaesano

-si oggi porto anche mio figlio-

-e dove andate?-

-Al canale vicino la masseria Portone-

- me ne hanno parlato, mi hanno detto che ci sono saraghi grossi così-

-si, ma ho preparato le canne per la pesca con il pane, vorrei prendere qualche cefalo-

-i saraghi mangiano di tutto mentre..-

mi intromisi nella conversazione

-Io non ho mai pescato con il pane ma so che si pescano pesci grossi-

-dipende da tante cose, dal vento, dalla fortuna e dalla bravura, ora finisci la colazione ed andiamo- disse mio padre

Il cappuccino era bollente e dovetti chieder ad Ada di aggiungere un altro poco di latte freddo per riuscire a terminarlo. In macchina faceva caldo, ed il vento gonfiava le camicie e faceva volare le cicche dal posacenere

-Papà, cos’è un partigiano-

-è una persona che si ribella-

-a chi?-

- a chi gli dice cosa fare-

-ed è giusto esserlo?-

-dipende se sopravvivi o muori- disse continuando a guardare la strada

Al canale c’era solo un altro pescatore, petto nudo, soprappeso e rosso come un gambero di fiume in padella. Gli passammo vicino con la macchina, mio padre gli chiese se avesse pescato qualcosa, lui rispose che ne aveva gia preso un paio. Notai una busta bianca piena di pane, sicuramente stava facendo la stessa pesca che avremmo fatto noi. Arrivammo dove il canale si stringeva ed entrava nel bacino. Mio padre scese dalla macchina, prese un panino e gli diede un morso. Un pezzo lo ingoio e l’altro lo buttò nel canale.

-Vediamo dove và la corrente- mi disse

-dove deve andare?-

-se va verso il mare possiamo restare fermi qui, se la corrente spinge verso il bacino dobbiamo andare in quella zona- additò in direzione di un grosso cespuglio di mirto a metà canale

-e se rimane fermo-

-Possiamo andare a casa, è difficile che i cefali mangino quando non c’è corrente-

Il pezzo di pane, lentamente percorreva il canale in direzione del mare.

-ok, possiamo metterci qui-

Il sole si stava alzando, ma un leggero vento di tramontana rendeva la temperatura ideale

-Papà, papà, l’hai visto- Un grosso cefalo era saltato nei pressi del pezzo di pane, e l’acqua lì vicino sembrava stesse bollendo

-si, i primi ad avvicinarsi all’esca sono i pesci piccoli, danno alcuni colpi con la coda per vedere se c’è l’amo, se non sentono niente cominciano a mangiare e poi arrivano i grandi che cercano di mandarli via, ecco perché l’acqua ribolle-

Mio padre si sedette su un mattone vicino la riva strappando piccoli pezzi di pane e buttandoli nel fiume

-va a prendere le canne il secchio ed il retino-

-subito-

Le due canne avevano un pezzo di pane che nascondeva i quattro ami, erano gia pronte. Pensai che il pane fosse meglio degli americani o dei bigattini o di tutti quegli strani tipi di vermi che usavamo le altre volte. Quelli che mi facevano più senso erano i coreani, dei vermi lunghi simili ai millepiedi, morbidi al tatto e che quando ne strappavi un pezzo per metterlo all’amo sia quello che avevi in mano sia quello che restava nella scatola si muoveva. Non ero mai riuscito a capire quale fosse l’inizio e quale la fine. Mi ero quasi convinto che non avessero testa. Una volta, ricordo che mio padre aveva comprato dei bigattini la sera prima di andare a pesca, i bigattini sono dei vermicelli piccoli e rosa, che a quanto ne so dovrebbero essere le larve della mosca, e che per mantenerli freschi li aveva messi i frigo. Ancora ricordo le urla di mia madre vedendo il frigo, la mattina dopo, invaso dai bigattini. Quel giorno mio padre non andò a pesca e passo tutta la mattina a disinfestare la cucina. Poggia il secchio vicino mio padre e gli porsi la sua canna.

-allora Ruggero, ora non dobbiamo fare troppo rumore e non dobbiamo farci vedere. Siediti qui- disse quasi bisbigliando

Mi sedetti su un sasso irregolare molto più scomodo del mattone di mio padre. L’acqua era tutto un ribollire sotto i tanti pezzi di pane che marciavano verso il mare.

-bene i cefali non mancano- disse lanciando verso il bacino.

Mi alzai in pedi, aprii l’archetto tenendo la lenza sotto l’indice ed il medio e lanciai. Il Pane cadde ad un metro di distanza da me. Mio padre mi guardo ed accenno un sorriso.

-Prima di lanciare devi bagnare il pane per renderlo più pesante, però ora lascialo la corrente lo sta gia allontanando-

Mi sedetti, chiusi l’archetto e raccolsi un po’ di lenza, poi come mi aveva fatto vedere altre volte, con l’indice della mano sinistra presi la lenza tra il mulinello ed il primo anello tendendola fino a sentire il peso del pane, in questo modo, mi aveva detto, si sentono subito gli strattoni del pesce e quando l’amo è teso è più facile che abbocchi.

-Non è da tutti pescare così lo sai?, solo i professionisti tendono la lenza con il dito-

Fui contento di ciò che aveva appena detto e nonostante mi sforzassi di restare serio come i “professionisti” non riuscii a trattenere un sorriso di imbarazzo e felicità. L’acqua era cristallina e si vedevano le alghe verdi ed alcuni branchi di piccoli pesci. Il pezzo di pane ora si trovava a tre quattro metri di distanza da me. Cominciai a sentire dei piccoli colpetti alla lenza ma aspettai ricordandomi che prima danno dei colpi con la coda e poi mangiano. Mio padre si girò e chiese quale fosse il mio pezzo di pane, glielo indicai con la punta della canna. Lo fissò e poi disse di raccogliere che qualcosa aveva abboccato. Con l’indice nel quale tenevo la lenza tirai e sentii i colpi del pesce. Quegli strattoni sono la cosa più bella della pesca. Presi la canna con due mani e la alzai verso l’alto raccogliendo con il mulinello. Sentivo il pesce, vibrare, nuotare verso di me e poi cercare di liberarsi. Poi lo vidi nell’acqua, abbassai la canna continua a raccogliere e poi alzai di nuovo. Un cefalo di una 15ina di centimetri pendeva e si dimenava di fronte me. Feci un paio di passi indietro. Era argentato, aveva una macchiolina gialla dietro le branchie, occhi perfettamente tondi, bianchi ed una pupilla nera dilatata. Mi misi la canna tra il braccio ed il petto poggiando l’impugnatura per terra. Il cefalo andava avanti e dietro come il batacchio di una campana. Mio padre mi disse di stare attento agli ami. Provai a stringerlo prendendolo per il dorso ma alzò la pinna e mi sfuggi. Provai un’altra volta ma non appena avvicinavo la mano cominciava a dimenarsi a scatti.

-non avrai mica paura di un pesce- disse mio padre con un sorriso sardonico.

Allora presi coraggio e lo afferrai dalla parte dello stomaco stringendo con quanta forza avevo nella mano, quasi a volerlo stritolare. Sentivo dei piccoli scossoni nella mano, la sua pancia morbida, il dorso squamoso. Provava ad alzare la pinna che però era incastrata sotto il mio pollice. Con la destra, stando attento a gli altri tre ami che pendevano poco più sopra, cercai di staccarlo. Aveva una piccola bocca protesa in avanti, sottile ma robusta, color grigio. Vidi l’amo che gli bucava il muso poco sotto l’occhio. La felicità provata nel sentire gli strattoni quando aveva abboccato, stava mutando, mi sentivo spaventato, turbato, credo che mi dispiacesse per lui. Con la coda dell’occhio vidi mio padre che mi guardava allora diedi un colpo secco alla lenza e l’amo recise un pezzo di bocca liberando il pesce e mi si conficcò nel dito medio. Buttai il cefalo nel secchio e senza farmi vedere mi tolsi l’amo.

-ti sei fatto male?-

-non è niente-

-bene, allora metti un pò d’acqua nel secchio-

Mi avvicinai alla riva. Avevo la mano sinistra piena di squame e nella destra un buchino dal quale usciva del sangue. mi sciacquai le mani mettendomi in ginocchio per riuscire ad arrivare all’acqua poi presi il secchio, il pesce dava ancora qualche colpo. Lo sbattere della robusta coda contro la plastica produceva un rumore sordo. Misi il secchio dentro l’acqua stando attento a non far scappare il pesce, lo riempii per poco meno della metà e lo poggiai all’ombra di un piccolo arbusto. Guardai nel secchio. Il cefalo era ancora vivo e nuotava ad intervalli irregolari prima verso destra e poi verso sinistra. Questo mi fece sentire meglio.

Il sole ora era basso e grande e si specchiava dall’altra parte del bacino. Il secchio era pieno di pesci. Io cominciavo ad aver di nuovo fame, erano passate molte ore dal pranzo nella pineta. Dovevano essere circa le otto. Mio padre mi disse di smontare la mia canna. Una volta fatto mi porse la sua.

-tieni prova a prendere qualcosa tu, io vado a pulire i pesci e poi ce ne andiamo-

-va bene-

Andò verso la macchina ed aprii il cofano.

-dove sono le forbici?- mi chiese

-Davanti, per terra-

Si mise sulla riva e cominciò a sventrare i pesci pulendoli nell’acqua ormai quasi del tutto immobile.

-nient’altro da pulire?-

Dirimpetto a lui, nell’acqua galleggiavano le interiora di una 15ina di pesci

-sembra che se ne siano andati-

-ok, questi basteranno per una bella cenetta-

-si, sto morendo di fame-

-andiamo-

Seduto nella macchina mi resi conto di quanto fossi esausto. Mi duoleva persino alzare le braccia. Ma ne era valsa la pena. Ci aspettava una bella scorpacciata di cefali arrosto, non troppo grandi, ma numerosi.

-che ne pensi della pesca col pane?-

-è bellissima, non avevo mai pescato tanto-

-torneremo qui a settembre, e vedrai…-

-Cosa?-

-che pescheremo solo bestie da mezzo kilo in su-

Teresa


La mia ragazza mi aspettava a Treviso ma io non potevo far altro che pensare a Teresa, al suo buffo modo di parlare, veloce, come se mille pensieri le attraversassero la testa e lei cercasse di afferrarne il più possibile per non dimenticarli, ai suoi capelli corvini sempre un po’ arruffati, al suo corpo minuto, al suo fare timido, come si trovasse sempre nel posto sbagliato e si sforzasse di non badarci, al suo viso di porcellana : pelle chiarissima, grandi occhi scuri e labbra purpuree.

Del tempo addietro ci siamo baciati, eravamo ubriachi, ed era notte ed io le ho chiesto di venire a dormire a casa mia anche se l’indomani mattina sarebbe arrivata la mia ragazza ma lei ha rifiutato perché non avevo un letto matrimoniale e poche settimane dopo ci siamo nuovamente baciati ed eravamo nuovamente ubriachi ed io le ho chiesto di venire a dormire con me e le ho parlato del mio nuovo letto matrimoniale ma lei nuovamente ha rifiutato.

Lei Teresa baciava con tanto di quell’ardore che pensavo un corpo così minuto non potesse contenere. Eran fuoco e rabbia. Eran due ,dieci, cento e ancora cento baci, profondi ,sensuali , di quelli che una penna non può descrivere ma solo delle Labbra.

E la prima sera che assaporai la sua insicura e frettolosa lingua disse che la mia giacca era

bella, ed io avrei voluto toglierla mai più. E quando parlavo di lei ad i mie amici loro dicevano che non avevo gusto.

E la rividi prima di prendere il treno ed i suoi capelli eran la cornice, il suo viso pallido la tela ed i suoi occhi l’opera, ed io avrei voluto baciarla perché entrambi non eravamo ubriachi, ma lei mi mostrò un libro con la foto di un suo dipinto, ed era bello, ma io volevo solo baciarla perché non eravamo ubriachi e perché non avevo mai creduto all’amore ed il sentimento che provavo con lei era ciò che pensavo ci si avvicinasse di più e comunque il massimo che io fossi in grado di sentire.

Ma non ci baciammo, la salutai, andai a casa, bevvi una bottiglia di rosato e presi il treno per andare a trovare la mia ragazza che mi aspettava a Treviso. Ma durante tutto il viaggio scrissi di Lei, di Teresa e non riuscivo a dormire per la voglia di scrivere qualche riga su una passione non consacrata ed anche per la sete….

Ma iniziava, dapprima in sordina e poi sempre più forte , a tormentarmi una paura, quella che magari, come un bambino viziato si lagna per avere qualche giocattolo ed una volta posseduto il desiderio si sposta su qualcos’altro ,anch’io potendola avere mi stanchi di lei, ed allora voglio che rimanga solo un desiderio inappagato, un palliativo alla noia, di cui scrivere quando non si ha nulla da fare, quando non si vuole pensare alla sete, quando non si riesce a dormire, tanto per sentirsi un poco artisti, tanto per illudersi di saper amare.

E un giorno anche lei mi disse di non sapere amare. Ma uno scrittore ed una pittrice possono non sapere amare? Forse è tanto forte l’amore per la propria arte che si pensa una passione non possa offrire tanto……. E se è così allora io voglio essere il più bel quadro che sia mai stato dipinto, voglio essere : Caravaggio, Warhol eBalla, e De chirico e Morandi Burri,Ray e tutto ciò che a lei piace, tanto che si innamori di me, e per sempre, perché un quadro non può tradire, perché un quadro se si ama è per sempre. Come un libro, e lei lo è già per me , Teresa è: Miller e Bukowski Emingway, Fante e Cèline, è tutto il meglio della letteratura, è parola dopo parola perfetta. Ed io vorrei descriverla, cantarvela affinché ogni uomo e donna possano amarla ,come si ama Camilla dopo aver letto Chiedi alla polvere o Catherine di Addio alle armi. Ma sono solo uno scrittorucolo e forse è troppo pretendere di farvela amare.