Mi sveglia di buon ora, circa mezz’ora prima che suonasse la sveglia. Sentii i passi pesanti di mio padre fuori, nel giardino, poi la porta del garage stridirie, poi rumori di cui non intendevo l’origine…Quando si ha qualcosa di bello da fare neanche svegliarsi presto pesa poi tanto. Andai in bagno e corsi, ancora in mutande, a raggiungere mio padre. Mi affacciai nel garage senza far rumore e lo trovai ricurvo sul vecchio desco intento a preparare le canne. Feci alcuni passi verso lui, aveva legato quattro ami ad un pezzo di lenza, staccò il filo dalla matassa avvicinandola alla sigaretta che stringeva fra le labbra. La semplicità del gesto mi fece un grande effetto…
-buongiorno- disse senza voltarsi
Ero sicuro di non aver fatto il minimo rumore…
-io ho quasi finito. Va a vestirti-
-Arrivo subito-
Una bella domenica di inizio estate. Il sole non aveva ancora fatto capolino fra gli alberi d’ulivo ma luce faceva brillare le foglie, che danzavano al ritmo di una tenue brezza mattutina. Misi su dei pantaloncini, ottenuti tagliando un paio di jeans logori, una vecchia camicia a strisce verticali di mio padre ed i sandali nuovi comprati al mercato pochi giorni fa. Sapevo che saremmo andati a fare colazione fuori, era una cosa che adoravo. Sentii la vecchia renault accendersi, un paio di accelerazioni a vuoto, e poi mio padre:
-Ruggero, andiamo-
-arrivo-
Andai in camera di mia madre, la salutai dandole un bacio in fronte, lei farfuglio qualcosa ed uscii. Mentre chiudevo dietro di me la porta di casa mi ricordai del cappello di paglia poggiato nel salotto, tornai a prenderlo, mio padre diede un leggero colpo di clacson. Parcheggiammo nella piazza del paese. Le campane annunciavano l’inizio della seconda messa. Donne in abito nero e uomini con il vestito della domenica si apprestavano ad entrare in chiesa. In quella piazza tutto dava l’idea di esser vecchio. Notai a lato della torretta, alta si e no una decina di metri, due targhe commemorative, a cui non avevo mai prestato attenzione. Erano semi nascoste da un cespuglio e consunte dal tempo, tanto che alcune parole risultavano illeggibili. Mi avvicinai e le lessi con attenzione:
M. C. nato ad Alliste nel 1892 …..si distinse per eroismo e lealtà…… ad un gruppo di partigiani…a Tripoli dove perì difendendo la patria nel 1911..
Un colpo di vento mi fece volar via il cappello, lo inseguii fino all’ingresso della chiesa. Lo rimisi in testa spingendolo a fondo ed andai al bar. Non sapevo cosa significasse partigiano, ma capivo che si trattava di una vittima di guerra.
-Come va ruggero?- mi chiese Ada la barista
-Bene grazie, oggi andiamo a pesca-
-allora ti servirà una bella colazione, cornetto e cappuccino?-
Era quello che aveva preso mio padre.
-Si grazie-
Mio padre aveva gia terminato e fumava una sigaretta scambiando quattro chiacchiere con un compaesano
-si oggi porto anche mio figlio-
-e dove andate?-
-Al canale vicino la masseria Portone-
- me ne hanno parlato, mi hanno detto che ci sono saraghi grossi così-
-si, ma ho preparato le canne per la pesca con il pane, vorrei prendere qualche cefalo-
-i saraghi mangiano di tutto mentre..-
mi intromisi nella conversazione
-Io non ho mai pescato con il pane ma so che si pescano pesci grossi-
-dipende da tante cose, dal vento, dalla fortuna e dalla bravura, ora finisci la colazione ed andiamo- disse mio padre
Il cappuccino era bollente e dovetti chieder ad Ada di aggiungere un altro poco di latte freddo per riuscire a terminarlo. In macchina faceva caldo, ed il vento gonfiava le camicie e faceva volare le cicche dal posacenere
-Papà, cos’è un partigiano-
-è una persona che si ribella-
-a chi?-
- a chi gli dice cosa fare-
-ed è giusto esserlo?-
-dipende se sopravvivi o muori- disse continuando a guardare la strada
Al canale c’era solo un altro pescatore, petto nudo, soprappeso e rosso come un gambero di fiume in padella. Gli passammo vicino con la macchina, mio padre gli chiese se avesse pescato qualcosa, lui rispose che ne aveva gia preso un paio. Notai una busta bianca piena di pane, sicuramente stava facendo la stessa pesca che avremmo fatto noi. Arrivammo dove il canale si stringeva ed entrava nel bacino. Mio padre scese dalla macchina, prese un panino e gli diede un morso. Un pezzo lo ingoio e l’altro lo buttò nel canale.
-Vediamo dove và la corrente- mi disse
-dove deve andare?-
-se va verso il mare possiamo restare fermi qui, se la corrente spinge verso il bacino dobbiamo andare in quella zona- additò in direzione di un grosso cespuglio di mirto a metà canale
-e se rimane fermo-
-Possiamo andare a casa, è difficile che i cefali mangino quando non c’è corrente-
Il pezzo di pane, lentamente percorreva il canale in direzione del mare.
-ok, possiamo metterci qui-
Il sole si stava alzando, ma un leggero vento di tramontana rendeva la temperatura ideale
-Papà, papà, l’hai visto- Un grosso cefalo era saltato nei pressi del pezzo di pane, e l’acqua lì vicino sembrava stesse bollendo
-si, i primi ad avvicinarsi all’esca sono i pesci piccoli, danno alcuni colpi con la coda per vedere se c’è l’amo, se non sentono niente cominciano a mangiare e poi arrivano i grandi che cercano di mandarli via, ecco perché l’acqua ribolle-
Mio padre si sedette su un mattone vicino la riva strappando piccoli pezzi di pane e buttandoli nel fiume
-va a prendere le canne il secchio ed il retino-
-subito-
Le due canne avevano un pezzo di pane che nascondeva i quattro ami, erano gia pronte. Pensai che il pane fosse meglio degli americani o dei bigattini o di tutti quegli strani tipi di vermi che usavamo le altre volte. Quelli che mi facevano più senso erano i coreani, dei vermi lunghi simili ai millepiedi, morbidi al tatto e che quando ne strappavi un pezzo per metterlo all’amo sia quello che avevi in mano sia quello che restava nella scatola si muoveva. Non ero mai riuscito a capire quale fosse l’inizio e quale la fine. Mi ero quasi convinto che non avessero testa. Una volta, ricordo che mio padre aveva comprato dei bigattini la sera prima di andare a pesca, i bigattini sono dei vermicelli piccoli e rosa, che a quanto ne so dovrebbero essere le larve della mosca, e che per mantenerli freschi li aveva messi i frigo. Ancora ricordo le urla di mia madre vedendo il frigo, la mattina dopo, invaso dai bigattini. Quel giorno mio padre non andò a pesca e passo tutta la mattina a disinfestare la cucina. Poggia il secchio vicino mio padre e gli porsi la sua canna.
-allora Ruggero, ora non dobbiamo fare troppo rumore e non dobbiamo farci vedere. Siediti qui- disse quasi bisbigliando
Mi sedetti su un sasso irregolare molto più scomodo del mattone di mio padre. L’acqua era tutto un ribollire sotto i tanti pezzi di pane che marciavano verso il mare.
-bene i cefali non mancano- disse lanciando verso il bacino.
Mi alzai in pedi, aprii l’archetto tenendo la lenza sotto l’indice ed il medio e lanciai. Il Pane cadde ad un metro di distanza da me. Mio padre mi guardo ed accenno un sorriso.
-Prima di lanciare devi bagnare il pane per renderlo più pesante, però ora lascialo la corrente lo sta gia allontanando-
Mi sedetti, chiusi l’archetto e raccolsi un po’ di lenza, poi come mi aveva fatto vedere altre volte, con l’indice della mano sinistra presi la lenza tra il mulinello ed il primo anello tendendola fino a sentire il peso del pane, in questo modo, mi aveva detto, si sentono subito gli strattoni del pesce e quando l’amo è teso è più facile che abbocchi.
-Non è da tutti pescare così lo sai?, solo i professionisti tendono la lenza con il dito-
Fui contento di ciò che aveva appena detto e nonostante mi sforzassi di restare serio come i “professionisti” non riuscii a trattenere un sorriso di imbarazzo e felicità. L’acqua era cristallina e si vedevano le alghe verdi ed alcuni branchi di piccoli pesci. Il pezzo di pane ora si trovava a tre quattro metri di distanza da me. Cominciai a sentire dei piccoli colpetti alla lenza ma aspettai ricordandomi che prima danno dei colpi con la coda e poi mangiano. Mio padre si girò e chiese quale fosse il mio pezzo di pane, glielo indicai con la punta della canna. Lo fissò e poi disse di raccogliere che qualcosa aveva abboccato. Con l’indice nel quale tenevo la lenza tirai e sentii i colpi del pesce. Quegli strattoni sono la cosa più bella della pesca. Presi la canna con due mani e la alzai verso l’alto raccogliendo con il mulinello. Sentivo il pesce, vibrare, nuotare verso di me e poi cercare di liberarsi. Poi lo vidi nell’acqua, abbassai la canna continua a raccogliere e poi alzai di nuovo. Un cefalo di una 15ina di centimetri pendeva e si dimenava di fronte me. Feci un paio di passi indietro. Era argentato, aveva una macchiolina gialla dietro le branchie, occhi perfettamente tondi, bianchi ed una pupilla nera dilatata. Mi misi la canna tra il braccio ed il petto poggiando l’impugnatura per terra. Il cefalo andava avanti e dietro come il batacchio di una campana. Mio padre mi disse di stare attento agli ami. Provai a stringerlo prendendolo per il dorso ma alzò la pinna e mi sfuggi. Provai un’altra volta ma non appena avvicinavo la mano cominciava a dimenarsi a scatti.
-non avrai mica paura di un pesce- disse mio padre con un sorriso sardonico.
Allora presi coraggio e lo afferrai dalla parte dello stomaco stringendo con quanta forza avevo nella mano, quasi a volerlo stritolare. Sentivo dei piccoli scossoni nella mano, la sua pancia morbida, il dorso squamoso. Provava ad alzare la pinna che però era incastrata sotto il mio pollice. Con la destra, stando attento a gli altri tre ami che pendevano poco più sopra, cercai di staccarlo. Aveva una piccola bocca protesa in avanti, sottile ma robusta, color grigio. Vidi l’amo che gli bucava il muso poco sotto l’occhio. La felicità provata nel sentire gli strattoni quando aveva abboccato, stava mutando, mi sentivo spaventato, turbato, credo che mi dispiacesse per lui. Con la coda dell’occhio vidi mio padre che mi guardava allora diedi un colpo secco alla lenza e l’amo recise un pezzo di bocca liberando il pesce e mi si conficcò nel dito medio. Buttai il cefalo nel secchio e senza farmi vedere mi tolsi l’amo.
-ti sei fatto male?-
-non è niente-
-bene, allora metti un pò d’acqua nel secchio-
Mi avvicinai alla riva. Avevo la mano sinistra piena di squame e nella destra un buchino dal quale usciva del sangue. mi sciacquai le mani mettendomi in ginocchio per riuscire ad arrivare all’acqua poi presi il secchio, il pesce dava ancora qualche colpo. Lo sbattere della robusta coda contro la plastica produceva un rumore sordo. Misi il secchio dentro l’acqua stando attento a non far scappare il pesce, lo riempii per poco meno della metà e lo poggiai all’ombra di un piccolo arbusto. Guardai nel secchio. Il cefalo era ancora vivo e nuotava ad intervalli irregolari prima verso destra e poi verso sinistra. Questo mi fece sentire meglio.
Il sole ora era basso e grande e si specchiava dall’altra parte del bacino. Il secchio era pieno di pesci. Io cominciavo ad aver di nuovo fame, erano passate molte ore dal pranzo nella pineta. Dovevano essere circa le otto. Mio padre mi disse di smontare la mia canna. Una volta fatto mi porse la sua.
-tieni prova a prendere qualcosa tu, io vado a pulire i pesci e poi ce ne andiamo-
-va bene-
Andò verso la macchina ed aprii il cofano.
-dove sono le forbici?- mi chiese
-Davanti, per terra-
Si mise sulla riva e cominciò a sventrare i pesci pulendoli nell’acqua ormai quasi del tutto immobile.
-nient’altro da pulire?-
Dirimpetto a lui, nell’acqua galleggiavano le interiora di una 15ina di pesci
-sembra che se ne siano andati-
-ok, questi basteranno per una bella cenetta-
-si, sto morendo di fame-
-andiamo-
Seduto nella macchina mi resi conto di quanto fossi esausto. Mi duoleva persino alzare le braccia. Ma ne era valsa la pena. Ci aspettava una bella scorpacciata di cefali arrosto, non troppo grandi, ma numerosi.
-che ne pensi della pesca col pane?-
-è bellissima, non avevo mai pescato tanto-
-torneremo qui a settembre, e vedrai…-
-Cosa?-
-che pescheremo solo bestie da mezzo kilo in su-